La medicina rigenerativa, nel campo dell’ingegneria tessutale, è alla ricerca di materiali innovativi. Il fine è la sostituzione, la riparazione o la rigenerazione dei tessuti danneggiati da una ferita, da un’ustione, da un’ulcera o da un intervento chirurgico. Oggi la tecnica principe per raggiungere tale obiettivo consiste nell’autotrapianto. Non senza limitazioni. Come, ad esempio, la difficoltà di reperire tessuto sano o il dolore inferto al paziente sottoposto a un duplice intervento. La sfida, dunque, consiste nel cercare materiali alternativi che assicurino biocompatibilità, scarsa immunogenicità e proprietà bioattive. Se poi questi materiali si ottengono da prodotti di scarto, il loro valore aumenta. Entrano, infatti, in gioco questioni etiche e un’economia che punta alla circolarità. Molti centri universitari si stanno impegnando nella ricerca di base per validare tessuti ingegnerizzati alternativi. E i motivi per provarci sono molteplici. Primo fra tutti creare un sostituto della pelle facile da maneggiare, resistente e capace di offrire un’architettura simile a quella del tessuto.
Uno scaffold da impiantare nella pelle è la combinazione di tre elementi: un materiale di supporto, un arricchimento di sostanze che possono avere proprietà antinfiammatorie o stimolanti per la rigenerazione e infine cellule capaci di colonizzare il supporto. Per quanto riguarda la pelle la sfida è ricostruire un supporto simile alla matrice extracellulare (ECM). La matrice è un tessuto di supporto ricco di macromolecole, come acido ialuronico e collagene. L’impalcatura creata dalle macromolecole guida i processi rigenerativi del tessuto. Ecco perché le sostanze più largamente utilizzate per mimare la matrice sono gli stessi polimeri che sono presenti nell’ECM. Ad esempio, è diffuso l’uso dell’acido ialuronico o del collagene. Finora il collagene usato per costruire scaffold per la cute derivava da bovini, equini o suini. “Il rischio nell’utilizzare mammiferi risiede nella possibilità che possano trasmettere malattie attraverso le componenti dei loro tessuti, come la BSE o l’encefalopatia spongiforme – spiega Michela Sugni, professoressa presso l’Università Statale di Milano e responsabile del progetto Riccicliamo – mentre gli animali filogeneticamente più lontani rendono più remota la possibilità di trasferimento di alcuni patogeni tra specie diverse”.
Ma questo è soltanto uno dei motivi per cui Sugni ha deciso di costruire un progetto di rigenerazione cutanea a partire dagli scarti del riccio di mare. Riccicliamo è un “brand” che unisce i due progetti di ricerca “BRITEs” (Finanziato dal MiUR) e “CIRCULAr” (finanziato da Fondazione Cariplo). Entrambi i progetti hanno come obiettivo generale quello della valorizzazione degli scarti del riccio. Si differenziano in alcuni aspetti applicativi soprattutto relativi alla produzione di mangimi, che è uno dei sottoprodotti ottenuti dal riccio. Il progetto coinvolge tre università italiane: Milano, Genova e Padova. “Proprio la parte che viene scartata del riccio di mare, di cui mangiamo le gonadi, contiene collagene. Con questo progetto possiamo dare una seconda vita proprio alla parte che costituisce il rifiuto”.
Michela Sugni, di formazione, è zoologa. Ciò che l’ha portata a incuriosirsi al collagene del riccio di mare sono anche le sue proprietà peculiari. I ricci di mare fanno parte del gruppo degli Echinodermi, a cui appartengono anche stelle di mare e cetrioli di mare. Questi animali hanno tessuti connettivi a base di collagene unici nel mondo animale. Sono, infatti, in grado di cambiare il proprio stato meccanico, la tensilità del tessuto sotto il controllo dell’animale. Passano da uno stato di irrigidimento a uno di rilassamento. Nei casi in cui questo “rilassamento” è estremo il tessuto va incontro a una sorta di disgregazione che permette all’animale di perdere parti del corpo, proprio come succede alla coda delle lucertole. In alternativa l’animale può, a suo piacimento, rilassare o irrigidire in modo reversibile il tessuto connettivo, senza alcun coinvolgimento muscolare. “Sono tessuti plastici, capaci di adattarsi alle condizioni esterne, il cui uso non richiede una spesa energetica eccessiva. È l’approccio biomimetico che ci appassiona. E così abbiamo pensato alla creazione di biomateriali che prendano ispirazione da questi animali”. Il primo obiettivo del progetto è stata la realizzazione di supporti statici basati su collagene di riccio di mare. Poi i ricercatori hanno analizzato la struttura del materiale e le proprietà meccaniche. In seguito si sono aggiunte le prove in vitro di citotossicità e vitalità dei fibroblasti, le cellule che colonizzano il derma umano. “Per capire se il biomateriale è biocompatibile e se è efficace dal punto di vista rigenerativo, stiamo ora affrontando i test in vivo”. Scaturisce da qui l’ultimo paper, pubblicato su Animals (Melotti L, 2021), che riporta le prove condotte sulla pecora. E il materiale sembra essere promettente. Sul modello in vivo riduce l’infiammazione, promuove la deposizione di tessuto di granulazione e induce di nuovo l’epitelizzazione.
Ma il progetto di Michela Sugni non può arrestarsi alla rigenerazione cutanea. Il pensiero va anche al delicato equilibrio in cui si trovano inseriti i ricci di mare. Le specie di riccio eduli (in Italia mangiamo Paracentrotus lividus) sono in forte declino. In alcune regioni italiane che lo propongono come una prelibatezza culinaria è diventato una rarità, perché pescato solo da stock naturali. “Sarebbe meglio usare ricci provenienti dall’acquacoltura. Ma oggi tale pratica è sottoutilizzata perché occorre troppo tempo per portare un riccio appena nato alla taglia commerciale”. A questo punto il pensiero ambientale e economico si intrecciano. L’assenza di acquacoltura è una limitazione produttiva con cui deve fare i conti lo stesso team impegnato nel progetto Riccicliamo. “Anche noi dobbiamo quantificare lo scarto per capire se è possibile ottenere una produzione industriale dal nostro progetto”. In effetti, il mercato del riccio di mare è di nicchia. Se è difficile raccogliere informazioni da un mercato così frammentato, la creazione di un gruppo multidisciplinare, che coinvolge economisti, giuristi e tecnici ha permesso di superare l’ostacolo che sembrava inceppare la fattibilità del progetto. La domanda a cui il team ha cercato di rispondere è: come fare a promuovere l’acquacoltura del riccio di mare per preservare una specie sotto pressione ma al contempo assicurare la materia prima necessaria a estrarre il collagene? “Se aumentiamo il valore del prodotto finale, attraverso un discorso di economia circolare, allora l’azienda ha qualche interesse in più a coltivare i ricci di mare. Anche lo scarto diventa una materia prima agli occhi dell’azienda”.
Ma non è detto che questa proposta sia sufficiente a sostenere la filiera dell’acquacoltura del riccio di mare. È molto difficile per un’azienda fare un investimento su un prodotto del mare che renderà dopo tre o quattro anni. Per questo Michela Sugni ha pronta una seconda proposta, quasi un sogno da realizzare nel futuro prossimo. “Per promuovere l’allevamento del riccio di mare bisognerebbe puntare sui sistemi di acquacoltura mista, quelli che in gergo si chiamano sistemi multitrofici integrati. Si potrebbero allevare insieme specie diverse, come branzini e ricci di mare. Sono infatti due specie che occupano due nicchie diverse e possono coesistere. Il riccio mangia alghe e avanzi di pesce. È utile a mantenere pulite le vasche”. Il branzino assicura un introito stabile e fisso. I ricci non danno lo stesso introito, ma possono aiutare a sostenere un’azienda. Anche perché non hanno un costo di allevamento. E poi, oltre a queste considerazioni economiche, “sarebbe proprio un modo per aiutare la sopravvivenza del riccio di mare”, conclude Sugni.
Tornando al discorso della riparazione delle ferite, restano altri due obiettivi importanti su cui i progetti BRITEs e CIRCULAr puntano nel prossimo futuro. Il primo riguarda l’arricchimento dello scaffold per renderlo ancora più efficiente nella riparazione delle ferite. La matrice extracellulare, infatti, non è solo un’impalcatura. È anche un magazzino di citochine e fattori di crescita che stimolano le cellule del derma a proliferare, contrastare l’infiammazione e a rimodellare il tessuto. Ecco perché è interessante testare lo scaffold in combinazione con vari additivi. “Sempre a partire dal riccio di mare, stiamo cercando di combinare antiossidanti con il collagene, per produrre dei materiali bioattivi a rilascio. Gli antiossidanti estratti da riccio hanno proprietà peculiari. Ci sono già prodotti commercializzati in Russia che contengono antiossidanti prelevati da altre specie di riccio” spiega Sugni. Se il collagene si estrae da una parte minima dello scarto, quello che resta serve a produrre farine di riccio come mangime. “Arrivare a estrarre anche gli antiossidanti significherebbe raggiungere l’obiettivo del ‘zero waste’, usando tutto lo scarto del riccio”. Il secondo obiettivo del progetto Riccicliamo ha a che fare con le particolari caratteristiche del collagene estratto dal riccio. Il collagene commercializzato oggi è estratto in una forma idrolizzata. È quindi impossibile preservare la fibrilla del collagene nella sua interezza, benché condizioni opportune possano, in parte, ricrearle. “Il collagene del riccio di mare è in forma nativa, cioè le fibrille sono intere e ancora decorate con i loro glicosamminoglicani, che conferiscono idrofilicità. Preservare la struttura della fibrilla significa mantenere la performance meccanica”.
Il sogno è quindi coniugare il nuovo collagene al bioprinting, un ambito molto innovativo nella medicina rigenerativa. “Mi piacerebbe confrontare il collagene di riccio con quello usato comunemente per il bioprinting. Il nostro collagene, usato come bio-ink, potrebbe aiutare a costruire strutture tridimensionali che sfruttano le caratteristiche native della molecola. Così potremmo preservare la funzioni per cui il collagene è stato creato nel corso dell’evoluzione: resistere agli stress meccanici. Mantenere la struttura della fibrilla si traduce in maggiore resistenza allo stress. Se usato in combinazione con una matrice idrofilica (idrogel) potrebbe permettere di ottenere biomateriali compositi ideati secondo il concetto funzionale del cemento armato: i tondini di ferro sono le fibrille, il cemento è l’idrogel. Del resto il nostro derma è organizzato proprio così”.
L’uso della stampa 3D per costruire scaffold e hydrogel da applicare a diversi settori, inclusa la medicina rigenerativa, è già una tecnica diffusa. Anzi, la stampa 3D potrebbe essere la tecnica del futuro per creare un’architettura perfetta per ospitare le cellule e stimolarne le capacità riparative. Infatti, la stampa 3D offre la duplice possibilità di creare scaffold con geometrie personalizzate e l’uso di materiali con proprietà eterogenee. “Per stampare biomateriali occorre sviluppare opportune tecnologie di stampa, con formulazioni inchiostri ottimizzati. Così è possibile ottenere oggetti 3D che abbiano caratteristiche variabili in termini di resistenze meccaniche, contenuto d’acqua e stabilità nel tempo “, spiega Lisa Elviri professoressa dell’Università di Parma. La criticità della tecnica risiede nella necessità di controllare l’architettura dello scaffold a livello macroscopico, microscopico e nanoscopico. Sono ordini di grandezza importanti se si desidera che lo scaffold possa ospitare cellule e scambiare con esse nutrienti e sostanze funzionali. “Geometrie di stampa 3D diverse sono in funzione della diffusione del principio attivo, che deve essere rilasciato in loco, con quantità e cinetiche che siano funzionali all’obiettivo finale: la soluzione del problema di una ferita esterna o interna”.
Il gruppo di ricerca della professoressa Elviri studia materiali di origine naturale, come chitosano, alginati, acido ialuronico, cellulosa micro- o nano-cristallina. Le sostanze di origine naturale sono ottime per minare le caratteristiche della matrice extracellulare e sono in grado di trattenere acqua. Le ferite guariscono bene in ambienti umidi e con pH tendente all’acido, che prevengono la formazione di croste e cicatrici. “Facciamo ricerca di base e studiamo diverse formulazioni a base di biomateriali, principi attivi e farmaci, antibiotici e antinfiammatori o sostanze naturali come la vitamina E. Ogni materiale deve poter essere stampato attraverso una stampante 3D”.
Lo studio pubblicato su Applied Science (Bergonzi C et al., 2021), sperimenta la produzione di uno scaffold di chitosano, che è un prodotto di rifiuto della filiera che processa i crostacei. Alla stampante 3D, che lavora per estrusione, è associato un sistema di deposizione del materiale su una piastra di acciaio raffreddata a -10°/-15° C. Al rapido raffreddamento segue una reazione di geli ficazione, che permette all’hydrogel di indurirsi e raggiungere la giusta consistenza.“La stampa 3D è molto riproducibile, anche se questa proprietà è influenzata dal materiale di partenza usato. Nel caso degli scaffold c’è una grande riproducibilità. Inoltre, offre la possibilità di stratificare diversi biomateriali che possono mimare meglio le proprietà della cute, un tessuto stratificato per eccellenza. Infine, il costrutto tridimensionale favorisce la motilità cellulare che concorre all’efficace riparazione di una ferita”. Gli obiettivi futuri del gruppo di ricerca sono rivolti al perfezionamento della tecnica di stampa. “Stiamo studiando inchiostro per la stampa 3D che polimerizza senza l’intervento di sostanze esterne. In tal modo, il biomateriale di interesse diventa l’unico componente esclusivo dello scaffold”.
Ma c’è anche una grande attenzione alle sostanze additive funzionali. Il gruppo sta sperimentando, in collaborazione con il Dipartimento di Microbiologia dell’Università di Parma, principi attivi che provengono dal Lactobacillus bulgaricus. “Nel latte stiamo isolando proteine e lipopolisaccaridi di origine chimica mista. Sono in grado di stimolare proliferazione e migrazione cellulare, grazie alla capacità di mimare la matrice extracellulare”. Oltre alle prove di biocompatibilità, tossicità e vitalità cellulare, il gruppo ha affiancato anche uno studio sulla produzione proteica da parte delle cellule stimolate dalle sostanze funzionali. “Sono proteine diagnostiche, legata all’innesco di diverse funzioni cellulari come la proliferazione o l’apoptosi. Così indaghiamo i processi biochimici che intercorrono all’interno della cellula se opportunamente stimolata”.
La stampante 3D a volte sembra una tecnica alla portata di tutti, anche per la possibilità di condividere schemi e personalizzare tecniche di stampa. Quanto dista la produzione di scaffold per la ricerca di base dalla pratica clinica? “La stampa 3D comprende un insieme di tecniche in forte accelerazione. L’avanzamento della tecnologia e la presenza di personale qualificato potrebbe renderle di uso comune in clinica. Oltre gli aspetti tecnici, però, ciò che fa la differenza sono gli inchiostri e la forma che si dà al manufatto. Dal punto di vista del materiale che potrebbe sbarcare per primo in clinica, dipende dalla tipologia. Ci sono sostanze sono già consolidate dal punto di vista della sicurezza e dell’efficacia nel riparare le ferite”. Fanno parte di questa categoria la vitamina E o il chitosano, entrambi usati da Elviri. Questo farebbe presagire un passaggio rapido all’utilizzo in clinica.“In realtà il passaggio non è mai immediato. Bisogna valutare la reale efficacia e considerare gli aspetti etici”, commenta Elviri.
Per quanto riguarda invece i processi di fabbricazione tramite la stampa 3D, la tecnica è uno strumento accattivante. Permette infatti di personalizzare un oggetto al fine di adattarlo alle specifiche esigenze di un paziente. “Anche il fatto di poter selezionare certi principi attivi rispetto ad altri consente di ampliare lo spettro di cura”. Una ferita profonda o superficiale, la presenza o l’assenza di un’infezione richiedono una risposta personalizzata. Tuttavia, la personalizzazione è anche sinonimo di variabilità. “Servono specifiche ben definite prima di introdurre la personalizzazione in clinica tramite stampa 3D, per evitare di creare problemi di salute o di sicurezza”, ha continuato Elviri. “Per la pelle non è solo questione di forme e geometrie da stampare, come accade per l’ortopedia. Abbiamo biomateriali che vanno funzionalizzati con sostanze attive. Il loro effetto varia in funzione del dosaggio o delle combinazione con altre sostanze o del loro rilascio”. E la questione si complica ulteriormente qualora vengano inserite nello scaffold anche cellule, magari prelevate dal paziente. Conclude l’esperta: “Il passaggio alla clinica, poi, va di pari passo con il consolidamento di alcuni aspetti regolatori. Nel caso della stampa 3D sono ancora in evoluzione”.
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