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Durante i lunghi mesi di pandemia alcuni tra gli appartenenti alla GenZ (nati dopo i 1995) da consumatori con uno specifico interesse per l’universo del fashion si sono trasformati in proprietari di piccole imprese. È un fenomeno che apre una nuova speranza: quella di veder emergere imprenditori capaci di mantenere quei valori di autenticità, comunità e sostenibilità che tutti i più recenti studi indicano tra le loro caratteristiche generazionali.
Bloccati a casa, spesso con poche prospettive di lavoro, hanno gettato i semi di quello che potrebbe essere un nuovo modo di pensare all’ecosistema della moda. Hanno iniziato a produrre per se stessi e per le loro community, lo hanno fatto per colmare i vuoti lasciati aperti dall’industria tradizionale alle prese con giganteschi problemi di sostenibilità e pratiche poco etiche di lavoro che si annidano all’interno della loro catena produttiva.
Come c’era da aspettarsi, vista la consuetudine senza precedenti di questa generazione con i social, si sono fatti conoscere utilizzando l’online. In particolare su Instagram (Made in Usa) o TikTok (Made in China), ma pure su Depop. Quest’ultima è una piattaforma di recente acquisita dal marketplace americano Etsy per 1,6 miliardi di dollari, ma nata nel 2011 a Treviso come spazio virtuale dove comprare e vendere capi artigianali o second hand.
Sono i numeri a dire che non si tratta di qualcosa di irrilevante. Stando a quanto dichiarano i responsabili di Depop la community dei venditori, nel 2020 ha fatturato 650 milioni di dollari. Questo successo ha alle spalle una consapevolezza di nuovo tipo: gli utenti di Depop sono stati così profilati da una recente ricerca di Bain & Company: il 90% ha apportato modifiche alla propria vita per rendere le pratiche quotidiane più sostenibili, per esempio ripara i vestiti (60%), riduce consumi insensati (70%) e ricicla (75%).
Qui di seguito indico alcune realtà significative non solo perché coerenti la sistema valoriale Gen Z ma pure per aver adottato pratiche difformi da quelle tradizionali.
A Londra Polivia Blakeman ha iniziato a creare gioielli da collane rotte e ciondoli vintage nel 2020. Un hobby a cui ha sempre affiancato la donazione del 10% dei profitti in beneficenza. Con il marchio Planet B ora sviluppa prodotti sostenibili ed etici realizzati da sé, ma pure dalla community di creativi indipendenti che la circonda. Altro esempio “eccentrico” viene da Mira Al-Momani, che dopo aver accumulato un’esperienza specifica come social media manager sta progettando una piattaforma di e-commerce multimarca per diffondere pezzi progettati in collaborazione con designer emergenti. Rilevante il suo modello di business: che non prevede drop-shipping o commissioni sul venduto, ma il pagamento diretto e iniziale di ciò che seleziona. Un'opportunità che permette ai designer partner di continuare il loro lavoro senza dover far ricorso a crediti che quasi nessuno inizialmente è in grado di garantire.
A New York anche Ii fondatore di Bowery Showroom, Matthew Choon, ha adottato un approccio al business, coerente con i tratti distintivi dell'imprenditorialità Gen Z. Il suo concept store si propone come un mix di vendita di prodotti, agenzia di influencer e incubatore di talenti. Lo spazio è anche disponibile per essere affittato da pop-up indipendenti. Sempre a New York la catena di store Artists & Fleas (opera dal 2003) ha di recente ampliato la sua offerta per includere un'iterazione incentrata sulla Gen Z. L’ha chiamata Regeneration e prevede tra l’altro che per una contenuta tariffa settimanale sia possibile affittare uno stand preallestito a Brooklyn per articoli vintage e riciclati per il fine settimana. Emma Rogue si è invece fatta conoscere su Instagram ma ha poi aperto un negozio permanente. Sono qusti ultimi esempi di come questi piccoli imprenditori stanno evolvendo la loro offerta oltre le piattaforme social, utilizzando spazi anche fisici, temporanei o meno.
Anche in Italia germogliano realtà che mettono al centro delle loro pratiche la sostenibilità. WUULS fondata da Emanuela e Francesco Picchini, valorizza la lana prodotta in Abruzzo grazie a un progetto dell’Università degli Studi dell’Aquila. Con una filiera produttiva completamente italiana e tinture ottenute esclusivamente da pigmenti vegetali WUULS si caratterizza per il forte impegno a difesa del Parco Nazionale del Gran Sasso. Zerow è una piattaforma collaborativa di aziende e artigiani che promuove il riutilizzo degli scarti di pelli, legno, tessuti e metalli attraverso un network circolare. Si chiama Rifò (nomen omen) l’azienda pratese fondata da Niccolò Cipriani, specializzata nella rigenerazione di filati. Si avvale anche della collaborazione della designer Lia Pantzer che ha una solida expertise nella progettazione di tessuti e accessori sostenibili.
Iniziative come queste possono apparire utopie fragili se messe a confronto con la “potenza di fuoco” dei potentati della moda. Eppure: man mano che le aziende della Gen Z maturano, a loro si affianca infrastrutture per supportarle. È già in funzione lo Shop di Instagram che consente di acquistare a partire da immagini o video di piccoli brand che utilizzano questa piattaforma. Di recente Depop sul suo blog ha avviato Level Up un corso di sei settimane destinato agli imprenditori Gen Z. La piattaforma ha anche tentato di fare da ponte tra questi ultimi e il mainstream della moda combinando upcycler con marchi globali come Vans o Adidas e invitando rivenditori vintage a curare collezioni legate a programmi TV di grande diffusine come Gossip Girl della HBO.
Anche TikTok ha sviluppato un hub per piccole imprese, un gestore degli annunci e una partnership Shopify nel tentativo di coltivare i giovani marchi. Gli imprenditori formano qui le proprie comunità anche attraverso hashtag tra cui #SmallBusinessCheck e #SustainableFashion, che vantano miliardi (!) di visualizzazioni.
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